Il fattore umano nell’era della digital transformation
A cura di Marco Santarelli
La digital transformation, con lo sviluppo ormai incessante delle tecnologie più avanzate per potenziare ogni ambito della nostra vita, dalla comunicazione alla difesa, porta con sé, come risvolto negativo, la tendenza a sfruttare queste tecnologie come strumenti di violenza e terrorismo, che minano la nostra sicurezza personale e quella nazionale e internazionale. Basti pensare ai social network e al web in generale e al dilagare della disinformazione e delle minacce cyber, quello che abbiamo chiamato terrorismo dal basso, o ai droni, strumenti di terrorismo dall’alto.
L’attacco del 7 ottobre sulla Striscia di Gaza da parte da Hamas, che sta per Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, Movimento Islamico di Resistenza, contro Israele ha mostrato una sorta di controtendenza, che ha favorito la riuscita dell’azione terroristica pianificata già da tempo, senza il minimo sospetto da parte dell’intelligence israeliana. In questo caso, infatti, la tecnologia è stata lasciata da parte a vantaggio del fattore umano.
Il fattore umano a favore del terrorismo: l’esempio di Hamas
Se l’intelligence israeliana, come è noto, fa leva totalmente sulla sua tecnologizzazione e ha costruito la sua forza negli anni su questo suo aspetto, Hamas si è affidata totalmente all’uomo, all’incontro de visu, allo scambio di documenti cartacei e di informazioni senza il minimo uso della rete internet, ma sfruttando la rete umana.
Come sostiene il giornalista Giovanni Minoli in un’intervista tv per il programma di La7 L’Aria che Tira, “Tutta l’intelligence, prevalentemente quella israeliana, si è basata sulla sorveglianza elettronica, mentre i capi di Hamas, reduci delle varie Intifada, hanno capito quello che Totò Riina sapeva, cioè che è meglio comunicare con i pizzini che con internet o il telefono. E nessuno sapeva come comunicavano. È la riscoperta dell’essere umano nell’intelligence. Lo spionaggio e il controspionaggio si possono fare solo se si riscopre che bisogna stare nei posti fisicamente, infiltrarsi, conoscere e avere rapporti con le persone. Israele progressivamente si è troppo tecnologizzata e i servizi segreti sono diventati prevalentemente sorveglianza elettronica. È un problema di partenza fondamentale che riguarda tutti i servizi segreti. Servono cose concrete fatte da uomini. In qualche modo esce sconfitta la tecnologia pura, l‘affidarsi in modo eccessivo e quasi divino escludendo progressivamente l’uomo e la sua capacità di analisi” (https://www.iltempo.it/personaggi/2023/10/11/news/giovanni-minoli-servizi-segreti-israele-hamas-tecnologia-crollo-mito-laria-che-tira-37167284/amp/%60).
Secondo Minoli, il metodo di Provenzano e Riina, quello dei pizzini difficilmente intercettabili e dei deltaplani (nel caso di Hamas), è lo specchio di una “guerra povera ma con cervello”. Così facendo, grazie alla loro reti di informatori e alle piantine delle abitazioni, i militanti di Hamas hanno saputo dove poter colpire indisturbati. Il mondo analogico di Hamas ha avuto la meglio su quello digitale di Israele e se in passato il primo è sempre stato alla portata di tutti, mentre il secondo restava privilegio di pochi, oggi il basso costo della tecnologia ha fatto sì che anche il semplice cittadino vi possa accedere, convertendosi in potenziale pericolo per la sicurezza altrui e rompendo il confine tra civile e militare. (https://www.iltempo.it/esteri/2023/10/15/news/israele-hamas-tecnologia-intelligenza-artificiale-deltaplani-pizzini-computer-37205868/).
Hamas ha fatto arrivare a Tel Aviv notizie incomplete, utilizzando finte fonti, addestrando contemporaneamente giovani sequestratori che si sono recati con i deltaplani in Egitto, dove ci sono scuole di volo. Dalle ispezioni dei cadaveri dei terroristi uccisi sono stati scoperti dei foglietti stampati a colori contenenti immagini di carri armati israeliani, con elenchi dei loro punti deboli e indicazioni su come usare al meglio i lanciarazzi. L’intelligence israeliana ha fallito perché si è affidata totalmente alla tecnologia, non considerando il fattore umano, sulla scia di quello che il criminologo francese Alian Bauer ha definito “feticismo tecnologico” qualche anno fa, in riferimento all’ondata di attentati che ha sconvolto l’Europa e che l’innovazione tecnologica non è riuscita ad evitare. (https://www.huffingtonpost.it/archivio/2016/03/30/news/per_sconfiggere_il_terrorismo_serve_soprattutto_il_fattore_umano_-5560026/).
Il fattore umano a favore della sicurezza: la Humint
La Humint, acronimo di Human Intelligence, è quella branca del metodo Intelligence che consiste nella raccolta di informazioni per mezzo di contatti interpersonali, quindi attraverso fonti umane, fonti aperte e informatori. Le attività Humint più diffuse sono, ad esempio, il pattugliamento ordinario, la ricognizione speciale, le informazioni frutto del lavoro dei consiglieri militari d’ambasciata, la redazione di rapporti diplomatici, le confessioni dei prigionieri di guerra, le interviste di rifugiati e viaggiatori e le notizie fornite da organizzazioni non governative, fino alle operazioni di spionaggio vero e proprio. Il miglior investimento che uno Stato possa fare è sempre stato quello sulle risorse umane e sul fare rete per la condivisione tra Stati delle informazioni e delle competenze.
Nel caso specifico mediorientale attuale, quel “lunghissimo filo informativo” tessuto tra uomini nell’organizzare l’attacco di Gaza e la “fisicità umana del passaparola”, come sottolinea Luisa Franchina, Presidente Associazione Italiana esperti in Infrastrutture Critiche, senza sfruttare nessun tipo di tecnologia, potevano essere intercettati se l’intelligence israeliana avesse messo in campo risorse umane e non solo apparati tecnologici (https://www.cybersecurity360.it/cybersecurity-nazionale/intelligence-israeliana-il-flop-hi-tech-contro-hamas-cosa-non-ha-funzionato/). Infatti, la strategia attuata da Hamas e tenuta nascosta per un anno, è stata di counter-intelligence, che può essere realizzata in maniera efficace solo attraverso il fattore umano, tant’è che tutta la struttura tecnologica israeliana di controllo, fatta di telecamere, sensori e sistemi d’attacco attivabili da remoto non è stata pronta a prevenire, o comunque a gestire, l’attacco del 7 ottobre. I droni, poi, sono stati utilizzati da Hamas per oscurare i sistemi delle torri di comunicazione così da impedire loro di rispondere tempestivamente (https://www.ilgiornale.it/news/guerra/manuali-campo-e-codici-riferimento-hamas-si-preparata-2224518.html).
Uomo vs tecnologia
In uno studio di Fabio Vanorio e Francesco D’Arrigo per l’Istituto Italiano di Studi Strategici “Niccolò Machiavelli” intitolato “Intelligence hyper-loop, su come la considerazione del concetto “human-in-the-loop” sia vitale per la rivoluzione digitale dello spionaggio” pubblicato a dicembre 2020 (https://www.strategicstudies.it/wp-content/uploads/2020/12/Edizioni-Machiavelli-Intelligence-Hyper-Loop.pdf), allo scopo “di indagare scientificamente sul ruolo che gli esseri umani possono svolgere nel promuovere o ostacolare il progresso tecnologico della Comunità Intelligence”, il concetto di “Human-In-The-Loop” fa riferimento al rapporto Uomo-Macchina, i due aspetti principali alla base della crescita tecnologica di un sistema. L’Uomo è fondamentale nel favorire questa crescita in ogni ambito, così come nella costruzione delle sei fasi dell’Intelligence Loop, o Ciclo Intelligence, costituito da indirizzi di ricerca, pianificazione e direzione, raccolta, trattamento ed elaborazione, analisi e produzione, e disseminazione.
Il coinvolgimento dell’Uomo è importante proprio perché sa catalogare e studiare l’evoluzione specifica dell’AI e del Machine Learning applicate alle indagini. Anche se lo studio Vanorio-D’Arrigo segnala uno scricchiolio nel ruolo dell’essere umano nell’Intelligence Loop, in quanto se un processo organizzativo non funziona, la tecnologia più innovativa non può fare a meno di risentirne, l’elemento umano sa gestire i processi dell’Intelligence Loop. Sa anche prevedere i principi alla base dell’AI (5G, Machine Learning, Big Data). Il problema principale, ad esempio nelle indagini asimmetriche, è che molte volte non c’è il sufficiente contributo tra uomo e macchina. Si dovrebbe invece dare sempre più importanza alla branca dell’intelligence costituita da fonti umane e dall’interazione interpersonale.
In tal senso, con il progresso della tecnologia, la fonte umana non verrà depotenziata, ma si adeguerà. In tale direzione fondamentale è la Virtual Humint: l’insieme del lato umano della Humint e di quello virtuale del Socmint, ossia la Social Media Intelligence. La Virtual Humint, disciplina che si occupa maggiormente della creazione di identità virtuali in rete, soprattutto nelle piattaforme social, al contrario di quanto si possa pensare, riporta l’Uomo alla sua centralità nell’analisi e nella raccolta delle informazioni, andando a colmare così i vuoti che per forza di cose vengono lasciati dalla tecnologia. Uomo-Macchina possono funzionare senza che necessariamente la macchina, nel corso della sua evoluzione, sostituisca l’uomo.
Da questo “potenziamento” tecnologico sono derivate due scuole di pensiero. La prima è quella dei Big Data, che analizza i dati in maniera quantitativa attraverso l’uso di software di analisi di alta tecnologia, ma mancanti del “fattore umano” che fornisce quel dettaglio in più spesso fondamentale per la svolta di un’indagine. Questi software comportano un impegno di spesa, tempo di formazione del personale e gestione non indifferenti.
La seconda scuola di pensiero, che invece fa un’analisi qualitativa delle informazioni, è la cosiddetta Analyst Human Centric. Lo dice il nome stesso: l’analista umano è al centro dell’attività di indagine e i software sono marginali.
Per capire meglio la differenza di approccio tra i due metodi basta pensare alla lotta al terrorismo: con i big data si ottiene una visione complessiva e statistica degli eventi, mentre attraverso la Virtual Humint, l’analisi è svolta in maniera verticale e andando a fondo agli eventi partendo dagli specifici aspetti delle informazioni presenti nel cyberspazio e cercando anche nuovi spunti. Un esempio ce lo fornisce la grande attività svolta da Bellingcat, il sito di giornalismo inglese che con strumenti di open source gratuiti e i suoi giornalisti analisti, è riuscito a scovare gruppi terroristici dell’ISIS provenienti dal confine turco, un reparto speciale dell’ISIS, il Katibat al-Battar, a scoprire chi fossero i due agenti russi accusati di avere avvelenato Sergei Skripal e geolocalizzato i sicari dei narcos nello stato messicano di Chihuahua. Ricordiamo poi la campagna di propaganda dell’ISIS, CyberJihad, che recluta sempre più i suoi adepti attraverso i social network, quindi utilizzando il cyberspazio, lo stesso cyberspazio, in cui la Virtual Humint sa benissimo come muoversi, con lo stesso approccio metodologico che la Humint mette in pratica nel mondo reale. (https://www.agendadigitale.eu/sicurezza/servizi-segreti-e-politica-la-lezione-della-cia-e-limportanza-del-fattore-umano-nellera-digitale/).